Separazione: il credito per prestazione eseguita ma non pagata cade nella comunione de residuo
I redditi personali cadono in comunione anche se non ancora esigibili, purché costituiscano il corrispettivo di prestazioni relative al periodo di vigenza della comunione legale (Cass. n. 16993/2023)
Due coniugi in comunione dei beni si separano, la moglie chiede di ottenere la metà dei redditi percepiti dal marito a titolo di corrispettivo per attività professionale svolta in costanza di matrimonio ma pagata solo successivamente.
I crediti che il professionista vanta verso clienti per prestazioni già eseguite e non ancora pagate cadono nella comunione de residuo?
La Corte di Cassazione, Sezione I, con l’ordinanza 14 giugno 2023, n. 16993 (testo in calce), risponde affermativamente. In via preliminare, i giudici ricordano che rientrano nella comunione immediata gli acquisti effettuati dai coniugi, mentre fanno parte della comunione differita i frutti dei beni propri di ognuno dei coniugi e i proventi dell’attività separata di ciascuno di essi. La disciplina normativa (art. 177 c.c.) distingue tra frutti (lett. b) e proventi (lett. c). In relazione ai primi la lettera della legge richiede che siano stati percepiti, mentre in relazione ai secondi si fa riferimento unicamente alla circostanza che non siano stati consumati.
Orbene, secondo gli ermellini, i proventi dell’attività cadono nella comunione de residuo anche se non ancora percepiti al momento dello scioglimento della comunione e ancora non esigibili. Deve trattarsi di redditi che «costituiscano il corrispettivo di prestazioni o del godimento di beni relativi al periodo di vigenza della comunione legale; tra essi sono compresi i crediti che il professionista vanta verso clienti per prestazioni già eseguite e non ancora pagate».
La pronuncia è interessante anche perché chiarisce alcuni aspetti sugli atti interruttivi del termine prescrizionale. Ai sensi dell’art. 2943 c.c., la prescrizione è interrotta da un’intimazione o una richiesta di pagamento idonea a manifestare la volontà del creditore di far valere il proprio diritto. La mera “riserva” contenuta nell’atto di citazione di agire per il risarcimento di danni diversi e ulteriori rispetto a quelli lamentati, vista la natura generica e ipotetica, non può equipararsi ad un’intimazione di pagamento.